giovedì, Marzo 28, 2024

La memoria ritrovata, istruzioni per l’uso

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La storia delle famiglie Procaccia, Pacifici e Molco: nove napoletani vittime della Shoah è il paradigma di un’Italia che si è rifiutata di prendere coscienza delle proprie responsabilità.

La memoria ritrovata, istruzioni per l'usodi Nico Pirozzi – La storia delle famiglie Procaccia, Pacifici e Molco: nove napoletani inghiottiti nel vortice della Shoah è il paradigma di un’Italia a cui è mancato il coraggio di indagare tra le pieghe del suo passato. È il volto di un Paese che si è da sempre rifiutato di prendere coscienza delle proprie responsabilità. Per questa semplice ragione, incapace di trasformare conoscenza e consapevolezza in memoria. Quella stessa memoria che potrebbe fungere da lezione e da monito per non ricadere negli identici errori del passato.

Ma la storia di queste tre famiglie – in particolare quella di Amedeo, Elda, Iole e Aldo Procaccia – è anche la storia di un tradimento. Sì, perché queste cinque persone non solo furono tradite dal loro re: da quella stessa famiglia – i Savoia – che dopo averli emancipati (come tutti gli ebrei del neonato Regno) ne sottoscrisse la condanna alla morte civile, con la promulgazione delle leggi razziali.

Ma a tradirli non fu solo quel Vittorio Emanuele III, re d’Italia, d’Albania e del Montenegro e imperatore dell’Etiopia, ma anche l’uomo nel quale avevano fortemente creduto. Il duce di quel fascismo a cui avevano aderito con convinzione ed entusiasmo sin dall’inizio, e che un bel giorno li mise alla porta senza tanti complimenti. Ma quello che fece più male a queste tre famiglie di ebrei napoletani fu il tradimento del vicino di casa. Di colui che non aveva il potere del Re o di Mussolini, ma che – a partire dal novembre 1943, dopo l’approvazione della Carta di Verona – aveva la possibilità di trasformarli da uomini in merce.

Merce che fascisti e nazisti pagavano abbastanza bene: 5.000 lire un uomo, 3.000 lire una donna e 1.500 lire un bambino.

Ecco quanto valevano, in quel dicembre del 1943, Amedeo e Iole; Oreste Sergio; Aldo, Milena e il loro figlioletto Paolo; Loris, Elda e la loro bambina Luciana. Nove persone scappate da Napoli quattro mesi prima a causa dei bombardamenti Alleati.

Trentaduemila lire: ecco quanto incassò il vicino di casa, un italiano, che li denunciò.

Trentaduemila lire che contribuiscono a smentire quel ritornello fattoci ascoltare per più di settant’anni. Sì, Italiani brava gente; Italiani gente di cuore e non come i tedeschi malvagi e assassini. Ci è stato così ben raccontato che ci aveva quasi convinto, con buona pace dei vivi e anche dei morti. Peccato però che nella maggioranza dei casi i buoni italiani non sono stati meno crudeli e malvagi dei cattivi tedeschi, con le popolazioni occupate e i connazionali ebrei.

Ma ad Amedeo, Iole, Oreste Sergio, Aldo, Milena, Loris, Elda, Paolo e Luciana, andò molto peggio, perché erano italiani coloro che li avevano denunciati.

Italiani erano i poliziotti che li avevano arrestati;

Italiani erano coloro che li avevano incarcerati a Bagni di Lucca;

Italiani erano coloro messi di guardia all’edificio nel quale erano reclusi.

C’erano anche degli italiani sui camion che dalle montagne della Lucchesia li trasferirono nelle carceri di Firenze, prima, e di Milano, poi.

E italiani erano anche molti degli aguzzini che, in una fredda mattina di settantasei anni fa, li caricarono a suon di urla e scudisciate su dei carri bestiame, che li attendevano al binario 21 della stazione di Milano.

Quel binario nascosto alla vista dei passeggeri, perché il pianto di un bambino poteva dar fastidio a quell’Italia che già si apprestava a saltare sul carro del vincitore. Incurante che quella mattina del 30 gennaio 1944 più di 600 persone stavano per essere trasportate al macello.

E italiano era anche il capostazione che diede il segnale verde a quel convoglio di carri bestiame, ben sapendo che quei vagoni trasportavano uomini e non bestie.

Italiani – ahinoi! – erano anche i ferrovieri che quel treno hanno condotto per giorni. Se non fino ad Auschwitz certamente fino ai confini del Brennero.

Messa così, c’è ancora qualcuno disposto a credere che nessun italiano – ma proprio nessuno – fosse al corrente di cosa trasportasse quel convoglio che trasudava paura e dolore, e dove fosse diretto?

Ad Auschwitz il convoglio contrassegnato dalla sigla RSHA/6 ci arrivò il 6 febbraio, di domenica.

Per essere ammazzati Amedeo, Iole, Milena e il piccolo Paolo, dovettero probabilmente attendere il lunedì mattina, perché nel mattatoio di Auschwitz-Birkenau la domenica degli aguzzini era più riservata al riposo che non al lavoro.

La piccola Luciana, che quando fu denunciata aveva da poco compiuto sei mesi, al capolinea del viaggio probabilmente non ci arrivò mai.

Elda, la giovane mamma, fu invece immatricolata, e dopo aver conosciuto gli orrori di Auschwitz non le furono risparmiati nemmeno quelli di Bergen Belsen, dove morì nel dicembre del 1944.

Sorte non diversa fu riservata a Loris e ad Aldo, che dopo essere stati anche loro immatricolati, sparirono in quell’inferno in cui erano precipitati, senza poter far nulla per salvare i loro due bambini.

Più fortunato – si fa per dire – fu Sergio Oreste, che nonostante fosse riuscito a vedere la liberazione del campo ad opera dei sovietici, non riuscì a sopravvivere alle malattie, che ne avevano minato il fisico. Morì in quello stesso luogo dove erano già morti i suoceri, i cognati e i due nipotini, il 28 febbraio 1945.

Che piaccia o meno questi sono i fatti… facciamocene una ragione.

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