martedì, Luglio 15, 2025

Covid-19, bandiera gialla sull’ospedale di Pozzuoli  

Cos’è realmente successo all’ospedale Santa Maria delle Grazie (La Schiana) di Pozzuoli? La testimonianza di una persona che ha vissuto la pericolosa emergenza dall’interno del nosocomio flegreo.

di Nico Pirozzi – Cos’è realmente successo all’ospedale Santa Maria delle Grazie (La Schiana) di Pozzuoli? Come è stato possibile che, nel giro di pochi giorni, un presidio sanitario si trasformasse in un aggressivo focolaio della Covid-19 con decine di medici, infermieri e operatori socio sanitari infettati? Quale è stata la causa? Ci sono state delle negligenze o delle sottovalutazioni da parte della Regione o della filiera di comando ospedaliera? Cosa non ha funzionato nei protocolli di sicurezza? Sono corrette le ricostruzioni apparse sino ad oggi sui giornali?

Se sono questi i principali quesiti ai quali dovrà rispondere la commissione di esperti esterni nominata ieri l’altro dalla Regione Campania, va anche detto che sostanzialmente sono anche queste le domande che si pone un qualunque cronista che azzarda una ricostruzione dei fatti credibile, utilizzando – come nel nostro caso – la preziosa testimonianza di una persona che ha vissuto (e continua purtroppo a vivere) la pericolosa emergenza dall’interno del nosocomio flegreo. Una fonte degna di credibilità, ma che per comprensibili motivi ha chiesto che non fosse rivelato il suo nome.

Cominciamo col dire che sin dall’insorgere dell’emergenza in quasi tutti i Pronto Soccorso d’Italia si è resa necessaria la creazione di percorsi d’accesso separati: uno per i pazienti sospetti o contagiati dal virus Covid-19, e l’altro per tutti gli altri tipi di emergenza.

Anche al Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli.

«Peccato, però, che il sistema utilizzato dimostrasse sin da subito delle pericolose falle», spiega il nostro interlocutore. «Nessuno, infatti, aveva messo in conto che i pazienti risultati negativi al tampone – ma che al loro arrivo in Pronto Soccorso erano stati instradati nel percorso riservato ai sospetti infetti – potevano contagiarsi durante la permanenza nell’area Covid». Come dire, si entrava sani e si rischiava di uscire malati. Difatti, come si scoprirà alcune settimane più tardi, «molti dei positivi al test risultano essere transitati per l’area Covid dell’ospedale prima di risultare infettati dal coronavirus», incalza il nostro interlocutore.

Se ciò si è dimostrato vero non è da escludere che alcune persone, presumibilmente contagiate dopo essere risultate negative al tampone, venissero ricoverate nel reparto di medicina. Questo, ancor prima della scoperta del cosiddetto “paziente 1”: la donna giunta al Pronto Soccorso di Pozzuoli lo scorso 31 marzo e, fino al 4 aprile, ricoverata nel reparto di Medicina del Santa Maria delle Grazie, senza precauzione alcuna.

Avuto sentore del rischio al quale si stava esponendo il nostro interlocutore, come gran parte dei circa cinquanta tra medici infermieri e operatori socio sanitari che, distribuiti su tre turni, prestano servizio al reparto di Medicina, si sono subito rivolti a chi era in grado di assumere decisioni più consone ai pericoli che si stagliavano all’orizzonte. «Ne abbiamo parlato col primario e anche con il caposala, che però ci hanno sempre assicurato che non c’erano rischi. Che i ricoveri in reparto erano stati attentamente monitorati. Insomma, potevamo dormire sonni tranquilli».

Già, potevano dormire sonni tranquilli, nonostante fossero stati mandati a combattere una guerra con le mani. «Sì, perché i dispositivi di protezione individuale, i cosiddetti DPI, sono stati sempre insufficienti e, soprattutto, inadeguati al rischio al quale siamo quotidianamente esposti», denuncia la nostra fonte. «Ad ogni turno ci sono state fornite delle semplici mascherine chirurgiche. Ma nessuna maschera protettiva del tipo FFP2 o FFP3; nessun camice monouso, schermo facciale, cuffia e occhiali protettivi. Insomma, niente di niente».

Solo generiche assicurazioni. Tutto qui. Questo fino ad una settimana fa. Quando – era il 9 aprile – tra i reparti si sparse la notizia dell’esistenza di una paziente positiva al coronavirus, che aveva soggiornato proprio al quarto piano del nosocomio flegreo, dove è ubicata la Medicina. Ma non solo. A manifestare i sintomi dell’infezione in quella stessa settimana erano anche state un’infermiera e un’operatrice socio-sanitaria, entrambe in organico al reparto di Medicina; entrambe risultate positive al virus.

Squilla l’allarme. Ma, forse perché il profumo della primavera e delle pastiere ha preso il sopravvento anche sul virus, non succede nulla. Non scatta l’isolamento del reparto e nemmeno la sanificazione dei locali.

«Solo il giorno dopo – siamo a venerdì 10 aprile – la direzione sanitaria dispone il tampone sul personale in servizio e sui degenti», spiega il nostro interlocutore. Qualcuno, all’interno del reparto, tenta «ma senza successo» di contattare il primario e il caposala, quando, il giorno dopo, diventa ufficiale la voce dell’isolamento del blocco, con il personale sanitario confinato al suo interno sine die (vi rimarrà dal pomeriggio di sabato alla mattina di lunedì), esponendolo a ulteriori rischi. Intanto, arrivano i risultati dei tamponi: è un disastro. Più della metà dei ricoverati sono positivi al test. E positivi sono anche una ventina tra medici, infermieri e operatori socio-sanitari. Come il nostro interlocutore.

Dopo il “rompete le righe” del martedì e l’alzata di scudi da parte dei sindaci di Pozzuoli, Bacoli, Quarto e Monte di Procida del giorno dopo, si è deciso di vietare l’accesso al nosocomio «a familiari dei pazienti e persone non autorizzate, stop temporaneo ai ricoveri e al trasferimento da 118 per consentire la sanificazione radicale dell’ospedale a partire dai reparti di Medicina e Chirurgia, tamponi per tutti gli operatori e i pazienti dell’ospedale, garanzia della fornitura di dispositivi di protezione individuale per tutti gli operatori sanitari e tavolo permanente per scambiarsi informazioni e dati in modo costante e trasparente».

Una soluzione che, però, non tranquillizza tutti. Men che mai il nostro interlocutore che si è visto negare il tampone ai familiari con i quali, fino al giorno prima di apprendere di essere positivo al coronavirus, ha convissuto. Il motivo? Non manifestano sintomi tali da richiedere il tampone. E, udite, udite, non risiedono in una zona di competenza dell’Asl NA2 Nord.

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