Napoli l’ha abbracciata, stretta forte, accolta con quel misto di entusiasmo e orgoglio che riserva solo ai figli prediletti. E Serena Rossi, artista sensibile e poliedrica, ha risposto con un gesto d’amore profondo, carnale, viscerale: una “SereNata a Napoli” – “notturno teatrale di musica e parole” che ha debuttato sul palco del Teatro Augusteo, là dove, ventitré anni fa, tutto ebbe inizio con “C’era una volta… Scugnizzi”.
Un cerchio che si chiude, o forse si riapre, nel segno della memoria, della melodia e di una città femmina, mai doma, che canta e s’incanta. Tra le poltrone dell’Augusteo, gremito e partecipe, l’accoglienza per l’attrice sembrava quasi travalicare i confini del teatro per sfociare in quelli dello stadio: cori, ovazioni, applausi a scena aperta e persino la presenza – mimetizzata ma non troppo – del capitano del Napoli Giovanni Di Lorenzo.
Segno che, più che un debutto, quello della Rossi è stato un vero ritorno a casa, con tanto di affettuoso appellativo da fiction: “Mina Settembre”, il personaggio che le ha cucito addosso la celebrità televisiva. Ma qui, in scena, è Serena, nuda d’identità altrui, armata solo della sua voce, del suo cuore, e di un’idea: raccontare Napoli restituendole il mistero, la contraddizione, la sacralità pagana e profana.
Lo fa con l’aiuto di Maria Sole Limodio e Pamela Maffioli alla scrittura, con la regia elegante di Maria Cristina Redini, e con la direzione musicale e gli arrangiamenti del Maestro Valeriano Chiaravalle, capace di fondere antico e moderno in un impasto sonoro che vibra di vita. Il racconto prende le mosse dalla sirena Partenope – sì, ancora lei – figura ormai quasi abusata, ma che Serena riesce a evocare con una freschezza inattesa, ricordando che proprio la musica è l’origine mitica della città.

Napoli come donna tentatrice e ferita, musa e madre, giacimento di bellezza e di dolore, che “ha confuso persino le sirene”. Tra narrazioni e canzoni, la Rossi si muove con grazia e intensità. Evoca Anna Maria Ortese e le “Quattro giornate di Napoli”, attraversa i sentimenti dei vicoli, le feste pagane, le malinconie salmastre di un popolo che “ama soffrire”, come lei stessa afferma con un sorriso venato di verità. Sul palco, a sostenerla, un ensemble raffinato: Gennaro Desiderio al violino, Gianpaolo Ferrigno alla chitarra, Antonio Ottaviano al pianoforte e clavicembalo, Michele Maione alle percussioni, Matteo Parisi al violoncello e Luca Sbardella tra fisarmonica e clarinetto.
Musica viva, vibrante, che accompagna un repertorio classico ma mai scontato: “Nuttate ‘e sentimento”, “Santa Lucia luntana”, “Lacreme napulitane”, “Festa di Piedigrotta”, “Dove sta Zazà” – canzone “più che mai triste”, come sottolinea Serena con disarmante sincerità. C’è anche spazio per la figura di Ria Rosa, (zia di lontana memoria della cantante) antesignana del femminismo, artista che sfidò le convenzioni portando il canto napoletano negli Stati Uniti, e che la Rossi rievoca con il brano “Preferisco il ‘900”, omaggio a una donna che seppe essere avanguardia. La scaletta prosegue con pietre miliari del repertorio partenopeo: “Guapparia”, “Bammenella”, “Tammurriata nera”, “Munastero ‘e Santa Chiara”, “Uocchie c’arraggiunate”, “Alla fiera di Mastandrea”, “Era de maggio”, “Passione”, “Dicitencello vuje”, “Io mammeta e tu”, “Presentimento”, “Reginella”.
Canzoni che diventano tessere di un mosaico emotivo e collettivo, in cui ogni spettatore ritrova una parte di sé. Su tutto gli applausi, scroscianti, e il senso di aver assistito non a un semplice concerto, ma a un rito laico, a un atto d’amore verso quella Napoli canora, ancora dorata e immortale, che Serena Rossi ha saputo celebrare con passione. Un debutto che è già ritorno, in scena fino a venerdì prossimo, un racconto che somiglia a una carezza.