di Corinne Bove – In un tempo in cui i teatri di guerra si moltiplicano, mutano pelle e confini, e in cui le guerre non si combattono solo con i missili ma con le narrazioni, le identità e la conoscenza profonda dei codici culturali, l’antropologia si riscopre arma strategica. È in questo scenario che si colloca il lavoro di Federico Prizzi, antropologo di campo, esperto di Military Cultural Intelligence, ricercatore sul campo in Asia, Medio Oriente e Balcani. Membro di ItaliensPR, ha lavorato con la NATO, l’ONU, l’Istituto Geografico Polare Italiano e varie università internazionali.
Il suo ultimo libro, Cultural Intelligence ed etnografia di guerra – il ruolo dell’antropologia nello studio dell’Information Warfare di Al Shabaab, è stato tradotto anche in turco, segno tangibile dell’interesse crescente verso un nuovo approccio allo studio dei conflitti armati. A lui abbiamo chiesto di accompagnarci nel cuore di un paradigma dove la cultura è una risorsa strategica, la conoscenza etnografica una chiave di lettura dei conflitti, e la guerra un fenomeno che va letto nei suoi codici profondi.
Dottor Prizzi, quanto le guerre armate sono anche guerre culturali?
“La cultura è parte fondamentale del sistema sicurezza. Nessun conflitto nasce o si sviluppa senza dinamiche culturali proprie. Per questo nel mio libro propongo strumenti culturali che aiutino le unità militari a comprendere meglio il contesto. La pace si raggiunge solo se si considerano gli elementi culturali del territorio”.
Qual è il valore dell’approccio emico nella raccolta delle informazioni sul campo?
“È fondamentale per ottenere un quadro culturale realistico. Tuttavia, è molto più complesso da realizzare rispetto a quello etico. Richiede all’antropologo di essere pronto a cambiare opinioni, abbandonare certezze, rivedere parametri. Serve umiltà, assenza di stereotipi, senso critico e autoironia. L’onestà intellettuale impone, a volte, di ricominciare tutto da capo”.
“Importare la democrazia” è uno slogan ricorrente. Che valore ha dal punto di vista antropologico?
“È uno slogan propagandistico privo di significato. Le missioni in Afghanistan, Iraq e le Rivoluzioni Colorate lo dimostrano. Ogni popolo ha una cultura politica storica. Imporre dall’esterno valori e modelli in tempi brevi è un errore. Anche l’Europa ha impiegato secoli e conflitti per arrivare ai sistemi attuali. Pretendere lo stesso da contesti diversi è utopia”.
È sufficiente il “dialogo” per evitare i conflitti nelle zone di crisi?
“No. Il dialogo è un parlare, non una soluzione. Io parlo di negoziazione operativa, ovvero quella condotta in zona di guerra con autorità, popolazione locale e gruppi armati. Negoziare significa influenzare e convincere. Ma nessuna negoziazione funziona se non è culturalmente informata”.
Cosa distingue il suo concetto di Cultural Intelligence dallo Human Terrain System americano?
“Lo Human Terrain System è fallito per motivi politici e strutturali. Il mio modello prevede che la Cultural Intelligence sia svolta da militari in servizio permanente, non da civili embedded. Così si evitano molte criticità già riscontrate dallo HTS”.
Quali strumenti vengono utilizzati per raccogliere informazioni sul campo?
“Attraverso l’Etnografia di Guerra: immersione partecipante, interviste agli informatori, interpretazione dei dati. Uno sguardo emico e uno studio etnologico profondo della realtà osservata”.
La Cultural Intelligence si applica anche alla guerra cibernetica?
“Assolutamente sì. Nel mio libro analizzo l’Information Warfare di Al Shabaab. Studiare come i gruppi jihadisti usano i social per influenzare la dimensione cognitiva della popolazione è fondamentale. È guerra culturale che si combatte con le narrazioni”.
Dove si impara questa metodologia?
“Stiamo avviando corsi in Cultural Intelligence e Comunicazione Strategica con ItaliensPR. Saranno rivolti a civili operanti in contesti a rischio: giornalisti, sanitari, ONG, aziende. L’obiettivo è fornire strumenti per aumentare la sicurezza e la capacità comunicativa in scenari complessi”.
In un’epoca in cui la strategia si gioca sempre più nella sfera culturale, l’antropologia militare proposta da Prizzi non è solo una teoria accademica: è una bussola per chi si muove nei territori dove la guerra è già realtà o minaccia costante.