L’urto emotivo e la potenza drammatica che accompagnano il ritorno di “Opera di periferia” al Teatro Augusteo rivelano tutta la ferita aperta e mai cicatrizzata della Napoli ai margini. Quella di Peppe Lanzetta non è una periferia di mattoni e cemento, ma una geografia interiore, una mappa del dolore e della disillusione, un deserto di anime che si affacciano sul nulla.
Là dove un tempo “C’era una volta…Scugnizzi” di Mattone accendeva la speranza nel riscatto, qui la narrazione di Lanzetta spoglia ogni residuo di romanticismo e consegna al pubblico il volto più crudo dell’esclusione: la disperazione che non grida più. In questa rappresentazione, due bande giovanili che si autoproclamano Ebrei e Palestinesi si affrontano in una guerra senza ideali, specchio di un conflitto universale: quello tra chi non ha più un’identità e chi non ha più un futuro.
L’autore, con la sua scrittura spoglia e viscerale, rifiuta ogni conforto morale, ogni lieto fine: perché la sua periferia è una terra che non promette redenzione, dove la colpa più grande è non sapere più chi si è. Solo dal riconoscimento del proprio vuoto, suggerisce Lanzetta, può nascere la possibilità di una rinascita, fragile e lenta come una coscienza che si ridesta. A dare corpo a questo universo disperato e poetico è la regia di Bruno Garofalo, che plasma la scena come un mosaico di piani rialzati e prospettive, in continuità con gli impianti scenografici già sperimentati in “C’era una volta… Scugnizzi”.
La sua mano orchestra un equilibrio tra coralità e solitudine, tra caos e silenzio, avvalendosi delle musiche di Maurizio Capone, ritmate, tribali, pulsanti di vita e della spinta metropolitana del rap di Ivan Granatino, voce rabbiosa e contemporanea di una generazione in trincea. In scena, con il boss dello stesso autore Lanzetta, l’energia de Le Ebbanesis aggiunge ironia e pathos, fondendo canto e recitazione in un fluire emotivo che ricorda la tradizione del teatro popolare, ma con una freschezza moderna e spregiudicata. Tra i giovani interpreti della compagnia, pronti anche a qualche citazione eduardiana, Alessandra Ciccariello, Vincenzo D’Ambrosio, Mattia Ferraro, Alfredo Mundo, Peppoh, Danilo Rovani e Lorenzo Simeone, spicca una verità espressiva che restituisce il senso di un teatro vissuto, non recitato.
Eppure, è Maria Rosaria Virgili a imprimere uno dei segni più profondi di questo allestimento. La sua “Maga Aurora” è una figura tragica, una Medea di periferia che porta sul volto le cicatrici del tempo e nella voce la rabbia di chi ha amato troppo e perso tutto. Virgili, con la sua interpretazione lacerante, costruisce un personaggio di straordinaria complessità: madre e cartomante, vittima e carnefice, emblema di un quartiere che sopravvive solo nella magia e nella follia.
Il suo sguardo, ferito e consapevole, attraversa la scena come un faro nel buio, richiamando a sé tutta la pietà che il mondo sembra aver dimenticato. Completano il quadro le coreografie di Orazio Caiti, dinamiche e vigorose, e i costumi di Anna Giordano, che mescolano quotidiano e visionario. Il tutto contribuisce a restituire la forza simbolica di un lavoro che, dal suo debutto al Campania Teatro Festival del 2008, continua a rinnovarsi come metafora eterna del conflitto tra bene e male, tra dignità e abbrutimento.
“Opera di periferia” non consola, non commuove per pietà, ma scuote. È un grido collettivo che denuncia l’abisso morale di un’umanità allo sbando e invita a guardare oltre la superficie delle cose. Perché, come insegna Lanzetta, solo attraversando il deserto del disincanto si può forse intravedere l’oasi di una coscienza nuova. E allora il teatro torna a essere ciò che deve: uno specchio che brucia, un luogo dove la verità ferisce per poter, infine, guarire.
