C’è sempre qualcosa di profondamente umano, eppure metafisico, nelle creazioni della Familie Flöz. Ogni loro opera è una stratificazione di memorie, corpi, ombre, risate e dolori, un impasto di poesia visiva e artigianato teatrale che, più che raccontare, evoca.
Con “Finale”, presentato in anteprima nazionale al Teatro Bellini, la compagnia berlinese torna a parlare con il linguaggio dell’invisibile, quello delle maschere, dei silenzi e degli sguardi che penetrano oltre la parola. Sotto la regia di Hajo Schüler, autore anche del testo insieme a Fabian Baumgarten, Lei-Lei Bavoil, Vasko Damjanov, Anna Kistel, Almut Lustig e Mats Süthoff, lo spettacolo, che si sviluppa in un unico fluire di circa ottanta minuti, diventa una parabola sul destino, sull’attesa, sul fragile equilibrio tra la fine e il ricominciamento.
È un’opera che, come spesso accade con la Familie Flöz, non ha bisogno di essere spiegata: basta lasciarsi attraversare dalla sua densità poetica e dalla sua essenza corporea. I costumi di Mascha Schubert e i pupazzi ideati dalla stessa Lei-Lei Bavoil, burattinaia e sarta formatasi a New York, donano alle figure sceniche una delicatezza quasi pittorica, dove ogni piega del tessuto sembra contenere un’emozione taciuta.
La musica originale di Vasko Damjanov, insieme alle partiture create da Anna Lustig & Ensemble, costruisce un paesaggio sonoro che respira come un’anima viva. E sul fondo, impercettibile ma prezioso, il sound design di Giorgio De Santis, custode di echi e sospiri, accompagna il ritmo segreto di ogni gesto. In scena, l’intesa fra Baumgarten, Bavoil, Damjanov, Lustig e Süthoff è la sostanza stessa del racconto: una danza di complicità dove il corpo diventa linguaggio, la maschera sentimento, e il silenzio, parola.
I tre episodi che compongono “Finale”: una madre malata e il figlio smarrito, un negozio notturno popolato di anime eccentriche, un ospedale che diventa soglia tra la vita e l’altrove, confluiscono in un’unica corrente emotiva. È un viaggio nella vulnerabilità dell’esistenza, un mosaico di quotidianità spezzate e ricomposte con la grazia di un rituale. Da trent’anni la Familie Flöz rinnova il senso del teatro visivo, mantenendo saldo il suo legame con la tradizione del mimo e del teatro di strada, ma aprendolo a nuove dimensioni di pensiero.
In “Finale” questa tensione verso la ricerca si fa ancora più tangibile: tutto è coralità, equilibrio tra ironia e malinconia, presenza e sparizione. Ogni gesto dei personaggi sembra interrogare il pubblico, come se ciascuno di noi fosse chiamato a rispondere alla domanda che chiude il lavoro: «Si aprono degli abissi. Chi salverà i personaggi?». Forse, suggerisce la compagnia, non esistono salvezze definitive, ma solo atti di comprensione reciproca.
E così “Finale”, che «non inizia solo nel pubblico, ma con il pubblico», diventa un’esperienza condivisa, un esperimento d’anima più che di scena. Alla fine resta la sensazione che il teatro, come la vita, non abbia davvero un’ultima battuta: ogni fine, se guardata con amore, è solo un’altra forma di inizio.
