domenica, Dicembre 14, 2025

Chirurgia estetica. Perché non mi rifaccio: madre e figlia si raccontano

Mia figlia adolescente mi chiede di tanto in tanto, con imbarazzante schiettezza, per quale motivo alla mia età non mi decido ad eliminare le rughe dal viso.

Come si può rispondere a una domanda di questo genere? Mentre ci rifletto su, non posso fare a meno di ritrovare nel suo quesito l’immagine di una società in cui sembra sia scomparsa la consapevolezza della morte ed essersi avviata una gara -condivisa tra tutti (uomini, donne, ragazzi, bambini) – a chi è più bello, più giovane, più fresco a dispetto degli anni. Quasi come se il partecipare alla gara garantisse una sorta di antidoto alla consapevolezza della finitezza della vita, quasi una specie di anestetico collettivo che intontisce tutti, ritardando, e in molti casi cancellando, la percezione che siamo su una strada che nasce per concludersi. Una strada che per essere percorsa implica un investimento graduale e progressivo di energie, vitalità, forze che grazie al passare del tempo consentono il dispiegarsi della vita stessa e la possibilità di raggiungere, o non raggiungere, quelli che ci si è posti come obiettivi o desideri da realizzare.

E torniamo alle rughe e alla risposta che mia figlia attende.

Continuo e rifletterci su e irrompe nel frattempo un altro pensiero. Mi chiedo come non cogliere nelle rughe proprio la narrazione di una vita passata, costruita, vissuta. Un solco nella pelle che in modo quasi prepotente, ma allo stesso tempo estremamente eloquente, metaforizza il percorso tracciato dalle proprie esperienze, dalle proprie scelte, dai propri fallimenti e successi. Un solco, sì, con una profondità e una direzione, quasi provocatoriamente a richiamare sia l’intensità dell’investimento in certe esperienze di vita sia l’inevitabile direzione che le stesse hanno dato ai momenti a loro successivi.

E dico a me stessa che probabilmente bisogna passare attraverso le rughe per toccare e ritoccare i solchi di momenti del passato che hanno dato struttura e senso alla percezione che si ha di noi stessi nel momento presente.

In queste riflessioni mi vengono alla mente i racconti di mia madre, nata nel 44 e passata attraverso la rivoluzione dei costumi del 68. Mi vengono in mente i toni e a volti timidi entusiasmi della sua voce nel raccontare le conquiste che la sua generazione di donne ha visto realizzarsi. Racconti questi che non possono fare a meno di suscitare in me la soddisfazione della crescita del ruolo delle donne all’interno di una storia dominata e raccontata dagli uomini.

E mi chiedo come si possa non intravedere in labbra gonfie, rughe spianate, seni oltremisura, l’ennesimo (o rinnovato) segno di una femminilità a servizio del gusto degli uomini, di un’identità femminile appiattita a mera affermazione di bellezza esteriore per di più asservita ai canoni dei modelli di bellezza più recenti (nonché nutriti dalle esigenze di mercato ultime).

E come non chiedersi: ma tutte le lotte, anche -ma soprattutto- concettuali, volte ad affermare un femminile autonomo, una identità delle donne costruita su valori di affermazione personale, soggettiva, sulla possibilità di espressione di sé indipendente dai desiderata del gruppo dominante dove sono mai finite?

Come è possibile che le figlie e le nipoti delle donne che sono passate attraverso il 68 oggi a 40, 50 anni (o prima) ritengono opportuno, nonché desiderabile, trasformare il loro corpo, il loro viso per essere “più belle”, per sentirsi meglio con se stesse.

Sento dire da molte (e da molti) “ma che male c’è?”, “se con un trattamento di bellezza (qualsivoglia esso sia, chirurgico o meno invasivo) la persona è più contenta, qual è il problema?”

E una domanda del genere sembra poter spazzare via in un solo colpo tutte le lotte affrontate e sollevate per affermare un valore delle donne che potesse (finalmente) travalicare e liberarsi della necessità di passare per l’adesione a canoni estetici. In un solo colpo si cancella uno sforzo condiviso da generazioni …et voilà ricompare ancora più solido e inespugnabile il “dovere” delle donne di piacere, di affermarsi tramite il corpo, di esprimere il loro valore mostrandosi belle (e soprattutto più belle delle altre, anche -e forse soprattutto- di quelle più giovani).

E poi mi chiedo perché non abbracciare un nuovo modo di considerare le rughe e i segni del corpo che invecchia. Perché non iniziare a convivere con le rughe e ritenerle un segnale vivo e convincente che ci rammenta che va lasciato spazio ai giovani. A quei giovani la cui pelle spianata è proprio il punto di partenza per l’avvio di un percorso di vita per il quali i detentori di rughe possono (direi “dovrebbero”) essere guida, piuttosto che simili o meglio concorrenti da superare.

Ho sempre più spesso, guardandomi intorno, l’impressione che in qualche modo sta accadendo che nel tentativo di trovare delle risposte si sta giungendo a soluzioni che in molti casi prevedono un’azione sul corpo implicandone una modifica, una trasformazione diretta e, talvolta, massiccia per sentire che lo specchio, o chi per esso, possa ancora dare una conferma, che possa ancora dire “sei bella/o, sei attraente…hai valore, hai ancora valore”.

Una conferma che ha di per sé una qualità di finitezza, di provvisorietà che non fa altro, dopo un passeggero e illusorio sollievo, che fornire un ulteriore e prepotente nutrimento ad un’assenza di senso, a quel generale e diffuso non senso esistenziale condiviso (ahimè) da vecchie e nuove generazioni.

E allora cancellare le rughe, nel goffo tentativo di negare la morte, la fragilità e finitezza del corpo, diventa l’ennesimo sforzo, ingenuo direi, di afferrare una felicità momentanea magari riconducibile ad una conferma di una bellezza, seppur provvisoria, ma ancora riconoscibile, ricadendo poco dopo nella totale perdita di contatto con un progetto di vita che ormai è nella parte avanzata del suo tragitto.

E mi chiedo ancora: ma dov’è finita la morte? Dove è possibile riafferrare quella consapevolezza sorda e quotidiana di una vita che finisce e a cui in qualche modo e per qualche strada va dato un senso, prima o poi…e probabilmente ancora di più nel periodo in cui il corpo urla senza vergogna i segni di un tempo che va avanti e impone una direzione, un significato.

E allora come si può risolvere tutto questo? Cosa rispondere adesso a mia figlia?

E decido di rivolgere a lei la domanda, mentre nella mia testa prendono forma delle sue possibili risposte.

Mamma, come si può risolvere tutto questo? Te lo chiedo a bruciapelo, e vorrei che ti mettessi nei miei panni, che ti ricordassi com’è essere adolescenti, perché certe riflessioni filosofiche mi fanno paura, mi danno le vertigini; e riguardano chi già ha assaggiato la vita. A dire il vero non volevo che mi spiegassi quanto sia autentico mostrare i segni del tempo, le cicatrici della vita: tu hai la tua storia fatta e formata, che rivendichi con una personalità salda, che ammiro e che qualche volta persino mi intimidisce, sebbene spesso la avversi e ti provochi. Ma io ho 18 anni, mamma. A 18 anni nemmeno si sa se ce ne saranno, segni di cui andare fieri. Soprattutto, non si sa se ci si sentirà orgogliosi di mostrare la propria storia, esponendola al pubblico ludibrio di un mondo che giudica e non si fa scrupoli ad umiliare. Che classifica, verifica, mortifica.

Già ora, che pure sono giovane e amata e piena di fiducia, mi sembra che per tanti sia così dannatamente difficile riempire certi vuoti, certe mancanze. Quelle voragini interiori che hanno bisogno di un cemento emotivo, in mancanza del quale (mi chiedo se esista), solo un anestetico può funzionare.

Ti ricordi Eleonora, la tata di quando ero piccola, quel giorno in cui venne a casa con le labbra siliconate e ancor più gonfie per i due strati di rossetto fucsia che ci aveva dipinto su? Tra noi forse quella più scioccata da quell’apparizione fui io, mi sembrava di non conoscerla, quella persona. Invece tu non facesti commenti ed ebbi l’impressione che la stessi guardando comprensiva, persino un po’ intenerita. Perché sei una che conosce l’anima e lo capivi bene, che quello era il suo modo di reagire al cancro che le aveva portato via il compagno di una vita. Che il gorgo nero e vorticoso di solitudine che la stava risucchiando andava combattuto a tutti i costi, magari evidenziando con forza, su Tinder e nel mondo, che c’erano delle labbra avide di baci consolatori.

Vorrei anche parlarti di Veronica, la mia compagna delle medie. Com’era insicura e sospettosa, quando ci vedevamo in classe. La sua paura del prossimo ti investiva come uno tsunami, il suo disperato tentativo di sentirsi apprezzata passava dalle minigonne, dal trucco marcato a cui quasi tutte noi altre non pensavamo neanche. I compagni di classe mi hanno detto che oggi Veronica è su Onlyfans; guadagna click facili con video del tipo che puoi immaginare. Guadagna bene, con i soldi dei followers si è rifatta il sedere (“brutto lardo schifoso”, lo chiamava), e il naso, perché odiava quella graziosa gobbetta che invece la rendeva piacevolmente riconoscibile. Il suo profilo è ora come quello di mille modelle anonimamente disperse nella rete. Solitudine virtuale.

Hai ragione, questa compiacenza di Veronica non fa onore alle battaglie con cui cerchiamo di affermare la nostra indipendenza di donne. Se si è disposti a modificare il proprio corpo per ottenere l’amore, che messaggio potremo mai trasmettere a chi volesse svilirci e manipolarci? Però la fragilità esiste. Il coraggio è una dote rara, tanto che per una condottiera l’abilità più grande, ancor di più che combattere, è convincere le altre che vale la pena farlo.

Ma poi, scusa, non direi mica che i “maschi” siano tanto più solidi. Simone, il biondino del corso di basso elettrico, mi piace tanto perché cerca di conquistarmi parlando di Sting e di come sarebbe bello andare insieme a San Francisco. Ma la maggior parte dei coetanei che incontro di solito sono convinti di poter essere guardati solo dopo palestra e integratori, tatuaggi e piercing. E magari fossero solo gli effetti collaterali dell’essere ragazzini. Non credi che il pensionato che acquista un SUV 200 cv, l’imprenditore di 70 anni che spudoratamente flirta con la segretaria di 25, il turista sessuale, stiano solo proponendo una versione diversa della patetica incapacità di invecchiare, della desolazione di chi arriva al capolinea senza una sola voce in curriculum vitae ritenuta significativa?

Dici di non sapere come si risolve tutto questo, figuriamoci se lo so io. Ma penso mi abbia fatto bene parlare con te, perché ho la sensazione di essermi schiarita la mente. Mettiamola così: se le rughe sono cicatrici, i lifting sono ferite aperte. Se le borse sotto gli occhi contengono fatica e fallimenti, il botulino è il vano balsamo del rimpianto.

Sai una cosa? Ho capito che quando ti chiedo perché non ti appiani le rughe lo faccio perché non ne hai bisogno. Non hai nessuna intenzione, ovvio. E stai tranquilla, neanche io. Ma sono una privilegiata. Mi avete curato e insegnato a prendermi cura di me; mi avete ascoltato senza che avessi mai bisogno di alzare la voce; mi avete regalato una base sicura. Quante persone possono dire altrettanto? Per chi non ha avuto una simile fortuna, la vita può fare, da moderatamente a maledettamente, schifo.

È grazie a questo che non mi verrà voglia di ingrossarmi le tette. Anzi, guarda, non escludo che un giorno possa decidere di togliermi uno sfizio simile, ma se pure fosse, quella scelta avrebbe un valore diverso, non convenzionale. Ci sono tette gonfie di tristezza, vergogna, paura. Le mie sarebbero tette entusiaste, autorevoli, significative.

In quella carinissima serie TV che vedemmo con papà, che mi sembrò un delizioso manifesto femminista, la fantastica signora Maisel entrava in scena ogni volta incoraggiandosi con un bel “Tits up!”. Fico, no? Tranquilla, madre, “Tette in su!”, vado a sfidare il mondo.

Testo a cura di Alda Troncone, psicologa e psicoterapeuta e Gianluca Ficca psichiatra.

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