venerdì, Marzo 29, 2024

Berlusconi riabilitato: “A proposito di ri-abilitazioni”

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Il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha concesso la ‘riabilitazione’ a Silvio Berlusconi. Il problema potrebbe essere più complesso e ci offre lo spunto per qualche saggia riflessione.

di Alfredo Grado – Con la ri-abilitazione concessa dal Tribunale di Sorveglianza di Milano a Silvio Berlusconi, cancellando di fatto tutti gli effetti della condanna subita nell’agosto del 2013 per frode fiscale Mediaset e, conseguentemente, facendo decadere  anche gli effetti della legge Severino che prevedevano l’esclusione dalla vita pubblica di Berlusconi per sei anni,  può sembrare che certe  sentenze abbiano un ruolo considerevole nello svolgimento della democrazia del Paese Italia.

Tuttavia, il problema potrebbe essere più complesso o, per meglio dire, di natura diversa da quello suggestivo ed inizialmente proposto, ma che ad ogni modo ci offre lo spunto per qualche saggia riflessione.

Berlusconi riabilitato: "A proposito di ri-abilitazioni"

Il fatto è che la magistratura ha acquisito, negli ultimi decenni, una legittimazione “sociale”, che si sovrappone a quella “formale”.

Ha acquisito, in parole povere, una legittimazione “democratica”, benché non sia un’istituzione elettiva. Anzi, in qualche modo, proprio la sua indipendenza dal circuito della rappresentanza è sembrata immunizzarla dalla crisi della rappresentanza medesima e consentirle di acquisire una peculiare “rappresentatività”.

Pertanto, il problema non è attinente al ruolo dei giurisdizionale, ma allo svuotamento della politica, da cui deriva certamente la tentazione di una sua compensazione di tipo giudiziaria contravvenendo, tra l’altro, a quelle norme scritte da Piero Calamandrei e secondo cui “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti solo alla legge” (art. 101); “La Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (art. 104); “I magistrati sono inamovibili [e] si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”.

Tutto ciò ha senz’altro una origine, ed è riconducibile a quando la magistratura si è trovata a dover rispondere ai bisogni di riconoscimento delle soggettività incarnate, del loro “diritto” a essere se stesse, emerse nelle società contemporanee da circa un ventennio a questa parte. Questo riconoscimento si è radicato in quella promessa originaria della modernità di essere “autori”, o perlomeno partecipi, dell’ordinamento.

Tali bisogni di riconoscimento soggettivi hanno minato (non da soli) i vincoli solidaristici che sorreggevano il legame sociale, nella misura in cui hanno prodotto individualizzazione e pluralismo estremi. In tal senso, il “diritto dell’individualità”, uno dei fattori propulsivi dei processi di democratizzazione, ha messo in discussione il quadro democratico, che a questo punto ha iniziato a necessitare di un collante collettivo. Ma non è finita qui.

In tali frangenti, la magistratura si è trovata a subire la pressione, da un lato, di quanti rivendicavano i propri diritti e, dall’altro, la pressione di un ordinamento che richiedeva sicurezza sociale.

Si tratta di istanze la cui gestione doveva  ricadere sulla classe politica la quale, a sua volta, avrebbe dovuto ricostruire le culture e le identità politiche autonome rispetto ai poteri economici e radicati nella società, senza coltivare l’alibi autoassolutorio che continua a produrre la ricerca di scorciatoie nefaste, all’insegna di un’ambigua governabilità.

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