È la voce di Fo che ritorna. Con Russo in scena, un cast coeso: Caterina Carpio, Annibale Pavone, Edoardo Sorgente, Emanuele Turetta, tutti fusi con pupazzi antropomorfi, come a sottolineare la disumanizzazione delle istituzioni e dei ruoli di potere.
Cinquantacinque anni dopo il debutto che sconvolse le scene italiane, “Morte accidentale di un anarchico” arriva al Teatro Bellini con la regia di Antonio Latella e la potente interpretazione di Daniele Russo nel ruolo del Matto. Ma non è solo uno spettacolo: è un atto politico, un rito collettivo di ricordo e dissacrazione, di denuncia e teatro.
È, soprattutto, il tentativo di riportare alla luce ciò che la storia italiana ha spesso tentato di archiviare tra le pieghe dell’ambiguità. Quando Dario Fo e Franca Rame lo scrissero nel 1970, il sangue di Giuseppe Pinelli era ancora fresco sull’asfalto di Milano. Caduto – secondo la versione ufficiale- accidentalmente da una finestra della Questura, l’anarchico non uscì mai vivo da quell’interrogatorio del 15 dicembre 1969.
Intorno a lui, un’Italia sconvolta dalla bomba di Piazza Fontana e avvolta in una cortina di fumo fatta di depistaggi, servizi deviati e strategie della tensione. Era il tempo dei cortei e delle cariche, dei manganelli e delle molotov, degli operai in lotta e dei giovani che volevano rifondare il mondo. Era un’Italia che gridava.
Quella stessa Italia oggi tace, o meglio, ascolta in silenzio, e lo fa in un teatro dove la platea è sparita, dove le poltrone sono coperte da una grande sagoma di legno che rappresenta proprio Pinelli appiattito al suolo. Gli spettatori, sparsi tra palchi e palcoscenico, siedono accanto agli attori e ai loro manichini. Tra pantaloncini modello Magnum PI e camicie hawaiane, il pubblico (che ormai va in teatro come al Camping) non è più spettatore passivo, ma parte di un organismo che vive e respira sulla scena.
In questo nuovo assetto scenico, Latella costruisce un’architettura della memoria e del disorientamento, riflettendo anche sul cambiamento del pubblico teatrale stesso: più eterogeneo, più distratto forse, ma anche più disposto a farsi scuotere, a lasciarsi coinvolgere da un teatro che si fa esperienza immersiva, riflessiva, politica. Daniele Russo, nel ruolo del Matto, trascina lo spettatore in un vortice di parole e travisamenti. La sua è una performance vertiginosa, una cascata verbale che sovrasta e affonda.
Il Matto è il folle lucido, l’unico a dire la verità perché nessuno può prenderlo sul serio. Cambia ruolo, tono, maschera, ma resta sempre se stesso. E proprio in questo continuo mutare, nella rapidità dei suoi monologhi, si cela il cuore stesso del testo di Fo: una risata che è sovversione, un’ironia che denuncia ciò che il potere tenta di nascondere. In lui si concentra tutta la rabbia del teatro politico novecentesco.
È la voce di Fo che ritorna. Con Russo in scena, un cast coeso: Caterina Carpio, Annibale Pavone, Edoardo Sorgente, Emanuele Turetta, tutti fusi con pupazzi antropomorfi, come a sottolineare la disumanizzazione delle istituzioni e dei ruoli di potere. Il Questore, i Commissari, gli Agenti, la Giornalista: tutti personaggi ridotti a marionette, a maschere grottesche di un sistema corrotto e grottescamente ordinato. Latella non teme l’eccesso né l’assurdo, anzi: lo cavalca per riportarci al cuore dello scandalo, alla crudeltà del paradosso, al teatro come denuncia e verità.
Certo, Fo era inimitabile. La sua presenza scenica, la sua voce, la sua capacità di incarnare la parola e farla detonare in un riso scandaloso restano irripetibili. Ma Latella non cerca di imitarlo: cerca piuttosto di inseguirne lo spirito, di raccoglierne il testimone. E ci riesce, donando al pubblico una messinscena che è al contempo commemorazione e attualizzazione, riflessione e ferita aperta.
Nel 1970, lo spettacolo fu accolto da denunce, sequestri, censure. Fo fu costretto a riscrivere la storia ambientandola a New York, evocando il caso di Andrea Salsedo, suicidato (o ucciso) in circostanze simili. Oggi, nel 2025, il testo resta profetico, necessario. Fino al 1° giugno, al Bellini, va in scena non solo una commedia, ma un manifesto: quello di un teatro che non rinuncia alla sua missione civile. E il Matto, eterno e inarrestabile, continua a raccontarci che la menzogna, quando è ben raccontata, può sembrare realtà. Ma che il teatro, con la sua risata scandalosa, può ancora riportare la verità in scena.