mercoledì, Aprile 24, 2024

Le grida de La Cupa di Borrelli incantano il San Ferdinando

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Giuseppe Giorgio
Giuseppe Giorgio
Caporedattore, giornalista professionista, cura la pagina degli spettacoli e di enogastronomia

Al teatro San Ferdinando, lo spettacolo di Mimmo Borrelli in versi, canti e drammaturgia in due parti, “La Cupa. Fabbula di un omo che divinne un albero”. Recensione.

di Giuseppe Giorgio – Portando prepotentemente alla mente quel topos letterario della discesa agli inferi che nei millenni ha visto, a turno, Orfeo, Ulisse, Enea e Dante, varcare la soglia ultraterrena, anche i protagonisti de “La Cupa”, o meglio, la “fabbula di un omo che divinne albero” vista al Teatro San Ferdinando, composta, verseggiata, drammatizzata, cantata, interpretata e diretta da Mimmo Borrelli, sembrano oltrepassare dolorosamente la soglia della vita per calarsi lungo una buia e avvelenata voragine aperta in una cava di tufo.

Un incavo di terra maledetta resa radioattiva dalla scellerattezza dell’uomo che,  proprio come un altro incavo scavato nella esistenza umana, conduce fin dove era caduto Lucifero. E proprio sostituendo l’infernale scalinata dantesca con un ponte di ferro che oltre a segnare la strada dei millenari massi tufacei conduce verso i misteriosi anfratti  di una terra violenta e sudicia, il dramaturgo Borrelli  lascia metaforicamente calare i personaggi della sua cruenta storia, lungo uno spazio escluso dal mondo.

Uno spazio terribile, un territorio di morte e di dolore capace di condurre verso la ricerca di uno spiraglio di luce fatto di civiltà e di chiarore per una società priva di piaghe e aberrazioni.  Così, partendo da quella stessa “Cupa” dove ad imperare è la mancanza di luce, anche la storia di Borrelli, s’inoltra nell’ombra e nel buio degli scavi di quegli stessi cavatori di tufo simbolo di dissesto e di violenza verso madre terra.

Con personaggi dal mitologico aspetto e capaci di andare al di là del tempo che affondano le loro origini in una dimensione fluttuante, le creature de “La Cupa”, ora  con il volto coperto di polvere, ora con il corpo straziato dai micidiali liquami da loro stessi creati, raccontano la veglia terrena di chi nello squallore della propria anima nasconde la lotta dell’umanità.

Intriso di disperazione, grida soffocate, sofferenze ancora vive che adombrano il presente e il futuro, che animano le coscienze, che distruggono i ricordi, il lavoro, attraverso un profondo studio linguistico ed antropologico tipico della produzione di Borrelli,  porta tra gli spettatori le eterne brutture di una civiltà immobile dinanzi alle sue rovine. Con un lessico duro e violento capace di dare una connotazione culturale e sociale persino al turpiloquio e con le lancinanti volontà di chi urla senza essere ascoltato, i personaggi immaginati da Borrelli nascondono misfatti e orribili e verità.

Pullulante di colpevoli per una terra piena di scorie e per impronunciabili peccati verso bambini violentati e venduti, il dramma in due parti dello straordinario autore e regista di Torregaveta, prodotto dallo Stabile di Napoli- Teatro Nazionale, porta dinanzi agli occhi degli spettatori, il calvario di esseri  spaccati a metà tra corpo e anima. Tra il dolore di violente penetrazioni carnali  trasformate in atti di ribellione verso qualcosa di impalpabile e superiore e tra l’incanto di un idioma perennemente in bilico tra il vituperio, la bestemmia ed il desiderio di riscatto, il lavoro dello straordinario Borrelli che apre la sua “Trinità della Terra” si conferma come il più limpido dei drammi di una società sporca ed infetta.

Tra paternità rinnegate dopo l’imprevedibile e disgraziata morte dei propri figli, crudeltà d’animo, figli non riconosciuti, fratelli segreti, allegorie familiari, atti di dolore, suicidi, omicidi, stupri e riflessioni, con “La Cupa”,  a prendere corpo è l’eterna tragedia di un’umanità in caduta libera. Con le travolgenti  prove dello stesso Borrelli affiancato da Maurizio Azzurro, Dario Barbato, Gaetano Colella, Veromica D’Elia, Renato De Simone, Gennaro Di Colandrea, Paolo Fabozzo, Marianna Fontana, Enzo Gaito, Geremia Longobardo, Stefano Miglio e Autilia Ranieri ed ancora, con le musiche e le sonorità di Antonio Della Ragione, le luci di Cesare Accetta, le scene di Luigi Ferrigno e i costumi di Enzo Pirozzi,  l’angosciante  e destabilizzante vicenda vede così il protagonista “Giosafatte ‘Nzamamorte”, dissotterrare acidamente i suoi orrorri e con essi, la perpetua sciagura di frangibili e  brutali esistenze che conduce direttamente verso le oscure e dannate profondità di una società affetta da uno spietato e incurabile male.

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