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Il 25 aprile e il Paese dei senza memoria

È una ricorrenza a due facce, quella del 25 aprile. Difatti, se la fine della guerra e la liberazione dell’Italia dalla tirannide nazi-fascista rappresentano l’icona ufficiale della festa, la retorica che si trasforma in storia raffigurano l’altra faccia della medaglia. È accaduto per la giornata della Liberazione e, tre mesi prima, per quella della Memoria. Sì perché in Italia la storia, o meglio la narrazione della storia, da decenni si è trasformata in una ridicola storiella.

di Nico Pirozzi – Due mesi fa, in occasione della giornata del ricordo (il 10 febbraio) il Presidente della Repubblica ebbe, tra l’altro, a dire:

«La nostra Repubblica trova nella libertà e nella verità i suoi fondamenti. [La nostra Repubblica] non ha avuto timore di scavare anche nella storia italiana per riconoscere omissioni, errori o colpe…»

Se è vero, come è vero che «Le dittature, tutte le dittature falsano la storia manipolando la memoria, nel tentativo di imporre la verità di Stato», è anche vero – aggiungo io – che le nostre istituzioni e gli uomini che le hanno rappresentate ai massimi livelli hanno avuto sin troppi timori a scavare in un passato dove il disonore ha spesso avuto il sopravvento sull’onore.

In questa prospettiva, omissioni, errori e colpe hanno spesso finito con il confondere il carnefice con la vittima, e la vittima con il suo carnefice.

Questa Repubblica è nata – almeno in teoria – sulle ceneri di una dittatura. Una dittatura che aveva un nome: fascismo; un capo: Benito Mussolini e diverse migliaia di sodali, gran parte di loro responsabili di crimini efferati.

Equiparare le due anime di quell’Italia – quella che, a torto o a ragione, si era battuta per l’affermazione dell’ideale fascista e repubblichino, razzista e antisemita, a quella dei partigiani e delle vittime delle rappresaglie nazi-fasciste – è stato il peggiore degli errori.

Mettere sullo stesso piano i morti di Salò e i martiri della Resistenza, come poco meno di trent’anni fa un presidente della Camera dei Deputati (Luciano Violante) ebbe l’ardire di fare, è più l’effetto che non la causa di una fuorviante memoria. Di aver rimandato per troppo tempo i conti con un passato che non è mai passato.

E poco importa se ciò è stato fatto in nome della continuità dello Stato, o per garantire accordi politici che poco avevano a che fare con la verità e quell’innegabile bisogno di giustizia.

È stato un mix di bugie e mezze verità a regalarci un presidente della Corte Costituzionale (Gaetano Azzariti) che, appena 14 anni prima, aveva rivestito la carica di presidente del tribunale della razza.

È stato un inconfessabile patto con il diavolo a permettere al capo della polizia politica fascista (Guido Leto), di organizzare i servizi segreti della neonata Repubblica.

È stato un insulso modo di pensare e di agire a permettere che ad un acclarato criminale di guerra (Rodolfo Graziani) fosse eretto un mausoleo alla memoria. Edificato – aggiungo – con soldi pubblici.

Con questi presupposti non vi è nulla da meravigliarsi se molte di quelle persone che furono perseguitate dal fascismo continuarono ad essere invise alla neonata Repubblica.

Con questi assurdi comportamenti non vi è proprio nulla da stupirsi se l’ultima delle restrizioni contro gli ebrei, prodotta da quella montagna di provvedimenti partoriti nel corso degli ultimi cinque anni di vita del fascismo e dei 19 mesi di vita della RSI, ha impiegato più di settant’anni per essere rimossa.

Chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo, affermava il filosofo e poeta spagnolo George Santayana. E in Italia, sta accadendo ciò:

A dimostrarlo non sono state solo le affermazioni recentemente fatte dalla seconda carica dello Stato (Ignazio La Russa), che commentando i fatti di via Rasella del 23 marzo 1944, sosteneva che la compagnia del battaglione “Bozen” – obiettivo dell’attentato – fosse un’allegra e pacifica banda di orchestrali. Ignorando provocatoriamente che in realtà si trattava di un battaglione della Polizia d’ordine delle SS (Ordnungspolizei). Le stesse unità, tanto per intenderci, che nell’est Europa si resero responsabili di orrendi crimini.

Chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo. Dovrebbero farsene una ragione anche i due ministri che parlando di immigrati e di politiche demografiche hanno utilizzato espressioni del tipo: «carico residuale» (Piantedosi) e «sostituzione etnica» (Lollobrigida).

Non intendo fare una lezione di storia, ma mi piace ricordare che il primo provvedimento razzista varato dal regime fascista non fu contro gli ebrei, ma contro gli africani. I neri.

A sollecitarlo, due anni prima della promulgazione delle leggi antisemite del novembre 1938, fu Alessandro Lissona, uno dei più autorevoli ed ascoltati esponenti della politica coloniale italiana (che anche negli anni della Repubblica ricoprì l’incarico di senatore). Per costui, i territori dell’Africa orientale occupati dagli italiani erano popolati da una sottospecie dei babbuini.

«L’accoppiamento con creature inferiori – sosteneva Lissona dalle colonne del quotidiano La Stampa, nel gennaio del 1937 – non va considerato solo per la anormalità del fatto fisiologico e neanche soltanto per le deleterie conseguenze che sono state segnalate, ma come scivolamento verso una promiscuità sociale, conseguenza inevitabile della promiscuità familiare».

Cento giorni dopo le preoccupazioni di Lissona si trasformarono in legge, che Vittorio Emanuele III (il sovrano a cui è titolata la Biblioteca nazionale di Napoli, la più importante istituzione culturale della città) promulgò senza batter ciglio.

Porta infatti la data del 19 aprile 1937 il Regio Decreto legge n. 880, che vietava i matrimoni misti e il concubinaggio (madamismo) con le donne africane, che i soldati italiani avevano “scoperto” in occasione delle campagne militari in Somalia, Etiopia, Eritrea e Libia. Il decreto puniva, con la reclusione da 1 a 5 anni di carcere, coloro che si macchiavano del delitto biologico di inquinare la razza e del delitto morale di elevare l’indigena al proprio livello, perdendo così il prestigio che gli derivava dall’appartenenza alla razza superiore.

Chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo. È bene farsene una ragione. Lo affermo pensando ad un altro aprile. Quello del 1945.

Capitava di venerdì il 20 aprile di quell’anno. Ad Amburgo le avanguardie dell’esercito britannico erano già entrate nella periferia della città. In quelle stesse ore nei sotterranei di una scuola (Bullenhuser Damm) le SS portavano a termine l’impiccagione di venti bambini, che per mesi erano stati utilizzati come “cavie” per degli inutili quanto crudeli esperimenti medici sulla tubercolosi. Tra quei bambini ve ne era anche uno di Napoli. Il suo nome era Sergio De Simone. Aveva da poco compito sette anni.

Ho voluto ricordare questo episodio perché quel numero – 20 – accompagnato dalla parola bambini, mi è capitato di sentirlo anche qualche giorno fa. Quando un mercenario del Gruppo Wagner (di proprietà di Evgenij Progozin, più conosciuto col nomignolo di cuoco di Putin), confessava candidamente di aver sparato alla testa di 20 bambini a Bakhmut.

Riflettere su un passato che stenta a passare; scavare con “onestà” nella storia recente del nostro Paese, riconoscendo quelle che sono state le omissioni, gli errori e le colpe, non sarà solo un inutile esercizio di memoria, ma anche il modo migliore per evitare che le ombre del passato torni a materializzarsi nel presente o in un prossimo futuro.

Articolo pubblicato il: 25 Aprile 2023 21:42

Redazione

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