giovedì, Marzo 28, 2024

Femminicidio: l’amore è un’altra cosa, tra un uomo e una donna, come cantava Gaber…

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di Maria Sordino e Antonella Amato – Ancora donne vittime di uomini “malati” d’amore. Il primo tragico episodio si è consumato a Caserta. Nicola Piscitelli, 55 anni, originario di Arienzo, e Rosaria Lentini, 59 anni, originaria del Catanese. I due vivevano spesso in un camper ed erano soliti spostarsi. La notte scorsa si erano accampati con il sacco a pelo, dentro al quale e’ stata ritrovata senza vita la donna accoltellata, in localita’ Cava Tifatina, vicino San Prisco, nel Casertano. L’uomo, costituitosi all’alba, ha raccontato ai carabinieri di aver accoltellato la compagna.

Il secondo episodio è avvenuto a Lucca. L’ ex marito di Vania è carabiniere, e sapeva anche lui, lo sapevano bene le amiche… ma lei era convinta che l’avrebbe potuto convincere, alla fine, con le “buone”. Lui è un dipendente della Manutencoop, cooperativa che si occupa di servizi per conto dell’Asl di Lucca. Si era già lavato i panni dopo averla ridotta come una torcia umana e ha negato. Vania ha due figli di 21 e 17 anni, ustioni nel 90% del corpo. Un testimone sul Corriere ha raccontato: «Continuava a bruciare e non riuscivamo a spegnerla, nonostante l’acqua che le gettavamo addosso». Racconta sconvolto Ezio Lucignani, operatore dell’ex ospedale Campo di Marte di Lucca, tra i primi a soccorrere Vania, lei che gridava: «È stato Pasquale, è stato Pasquale…». «Una scena horror – racconta Riccardo Giorgi, uno degli addetti alla sicurezza attirato dalle grida d’aiuto – di quelle che si vedono solo nei film. Aveva la faccia a terra e le braccia, consumate dalle fiamme, sembravano di plastica… Gli operatori del 118 erano in difficoltà, cercavano di capire come fare a prenderla per sistemarla su una barella. Aveva la pancia in giù e prima di girarla hanno dovuto sedarla. Aveva un vestito sintetico e le braccia sembrano plastificate, una scena raccapricciante, nemmeno nei peggiori film dell’orrore”.

SCARPE ROSSE – Era il 27 luglio del 2012 quando Elina Chauvet le utilizzò per la prima volta in un’installazione artistica pubblica davanti al consolato messicano di El Paso, in Texas, per ricordare le centinaia di donne uccise nella città messicana di Juarez.

L’artista ha vissuto a Ciudad Juárez  in Messico, negli anni della formazione universitaria, in architettura, ed è stato allora che ha potuto constatare il fenomeno della sparizione delle giovani donne – diverse inchieste le indicano principalmente di età compresa tra i quindici e i venticinque anni – e del ritrovamento dei loro corpi senza vita nel deserto. Tutte vittime di uno stesso trattamento, come se l’azione criminale sia commessa da un serial killer: rapite, stuprate, orrendamente mutilate e uccise per strangolamento. Allo stesso tempo Elina ha notato come la città e le autorità minimizzassero il problema. Dietro quei nomi si celano studentesse e molte lavoratrici delle Maquiladoras, fabbriche che impiegano manodopera a bassissimo costo (questa è la zona franca più grande del Messico, dunque vi sono molte fabbriche). Così l’artista ha deciso di rompere attraverso il suo lavoro l’omertà e il silenzio che avvolge questa situazione. Nel 2009 Elina ha dunque raccolto tra conoscenti trentatré paia di scarpe e le ha installate nello spazio urbano di Juárez. Dopo il primo Zapatos Rojos, ha atteso due anni per rifarlo, ma questa volta a Mazatlan, nello stato di Sinaloa, e di scarpe, grazie al passaparola generato dall’installazione a Juárez, ne sono state donate trecento.

Da quel giorno le scarpette rosse, dello stesso colore del sangue versato da tantissime donne in tutto il mondo, sono diventate il simbolo della Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne.

Da allora, nella giornata del 25 novembre, indossare un paio di scarpe rosse vuol simboleggiare la nostra adesione ad una lotta che ci deve vedere tutte unite, per dire basta ad ogni tipo di violenza: e se si pensa che in Italia ogni tre giorni una donna viene uccisa da un uomo che la conosceva bene e che diceva di amarla, scopriamo che anche da noi, purtroppo, c’è ancora molto da fare.

 

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