sabato, Aprile 20, 2024

Intervista a Laura Mazzeri, autrice di “Tra due vite”. Una storia vera

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di Maria Sordino – Laura Mazzeri è l’autrice di uno libro, edito da Giunti, dal titolo “Tra due vite”, una storia autobiografica che racconta il complesso e difficile percorso che l’ha accompagnata, dalla scoperta di una grave malattia auto immune, alla necessità del trapianto di fegato. Una storia intensa, autentica di coraggio e passione, in cui traspare l’amore per la vita e un senso profondo di gratitudine per il dono ricevuto dal suo Giovane Cavaliere, il donatore. Laura Mazzeri è anche una donna, una madre, una moglie che un giorno ha scoperto che la sua vita era profondamente cambiata e, di fronte alla possibilità di morire, ha saputo comprendere che “la morte verrà per ognuno, ma si può dare vita ai giorni che si hanno”. Perché una storia così particolare come quella di un trapianto ci riguarda tutti? Se proviamo a sublimare il racconto di Laura, pensando che per ognuno può esserci un evento spartiacque che definisce il confine tra un prima e un dopo, attraverso la lettura del libro potremo scoprire, con lei, il potere salvifico degli incroci tra vite nelle situazioni di fragilità esistenziale e la struggente voglia di farcela sempre, nelle prove difficili. Un grande dono.

Perché scrivere un libro sulla tua storia personale?

“La mia vicenda di malattia grave è stata un tale scossone nella vita personale e relazionale che scrivere è stato il modo per riuscire a fronteggiare la paura e per sopportare quello che mi stava capitando. Accade per una diagnosi di malattia grave, accade per un incidente, accade per un abbandono, per un lutto, per un tradimento, cioè per tutte quelle situazioni che irrompono improvvisamente nella vita e che creano un trauma. Le risorse per superare il trauma ci sono, bisogna attivarle. Scrivere appunti, pagine di diario, lettere agli amici stretti, affidando a quegli scritti i pensieri più profondi relativi alla vita e alla morte, mi ha permesso di mettere ordine e di capire quello che mi sta succedendo. Una delle cose più strane di queste vicende è che è difficile parlarne con i familiari più stretti. Coi figli è ovvio capire perché. A loro le cose vanno spiegate e vanno anche protetti. Col partner ci si confida, il marito con la moglie, la moglie col marito, col fidanzato, ma c’è comunque questo bisogno protettivo di non spaventare troppo e nello stesso tempo di non manifestare fino in fondo la propria paura. Almeno a me è accaduto questo. Spiegavo quello che mi stava succedendo, ma non potevo lasciarmi andare. Avevo bisogno di una valvola di sfogo. Abbandonarmi al potere della penna, alla scrittura, mi ha aiutato”.

Come hai gestito la tua figura di madre, donna, paziente e che ruolo hanno avuto, nel tuo percorso di malattia e cura, le persone intorno a te?libro

“Ci sono stati diversi qualcuno e ognuno si prendeva una parte. Mio marito come alleato in una dimensione pratica organizzativa dei tempi, degli spazi domestici e di aiuto su cose che non riuscivo più a fare. Mi ha dato anche una rassicurazione affettiva molto importante: sapevo che lui non mi avrebbe abbandonato, sarebbe stato lì a vivere diversamente da me, ma con me, quel percorso. Quindi non tanto una spalla su cui piangere, ma una spalla su cui fare affidamento. Lui c’era. I figli e mia madre, che allora era anziana, li ho dovuti proteggere, tutelare. Gli amici più o meno prossimi, poi, sono state persone con cui condividere pensieri e progetti creativi nel corso dell’attesa. Sono diventati degli alleati: mi hanno aiutato a girare un cortometraggio, ad aprire un blog dove scrivevo le mie riflessioni sul senso della vita che si approssima alla morte. Tutto questo non con tristezza ma, come succede spesso tra amici, con ironia e col fatalismo di affidarsi al destino e al lavoro dei medici. Le mie paure, invece, le ho sfogate con la psicoterapia di sostegno, che ritengo essere fondamentale per tutte le persone che hanno un trauma così importante in età ancora giovane. Mi ha aiutato a comprendere che, in sintesi, la morte verrà per ognuno, ma si può dare vita ai giorni che si hanno. La paura è un sentimento, un’emozione umana che, se diventa dilagante, impedisce di vivere”.

Pensi che il fatto di aver vissuto la tua storia di malattia in una città come Milano, ti abbia aiutato in termini di assistenza sanitaria?

“Sicuramente avere due centri di eccellenza, l’ospedale San Paolo per le malattie epatiche e il Niguarda per il trapianto, ha reso più semplice tutto il percorso di cura, perché avevo due punti di riferimento molto saldi a cui affidarmi. Dal punto di vista personale ed emotivo, invece, ho avuto bisogno di attivarmi. Certo Milano è una città che offre tante opportunità. C’era lo psicologo, c’era l’associazione “Attivecomeprima”, canto in un coro e il coro era a due passi da casa mia e potevo andarci anche quando non mi sentivo troppo in forze. Ho avuto a disposizione una rete facile da attivare, anche se ho dovuto comunque attivarla io”.

Quando ci si trova vicino alla morte si fanno delle considerazione che vanno oltre la vita. Cosa pensavi in quei momenti?

“Durante l’attesa del trapianto ripetevo spesso ai miei figli che la frase ‘la speranza è l’ultima a morire’ non è banale e che si può coltivare quello che lo psicoterapeuta chiama la speranza irragionevole. Anche quando tutto sembra tramare contro di te e questo può succedere in qualunque momento e a chiunque, esiste sempre una speranza, al momento irragionevole, che ti fa pensare che la vita può comunque cambiare, nel bene e nel male. I figli erano piccoli, vedevano che la mamma stava male, ma questa mamma che tipo di persona era? Pensavo ‘se dovessi morire cosa lascio loro?’ Ho scoperto così delle risorse che erano rimaste sopite dentro di me, come per esempio l’allegria e l’ironia, il giocare con la propria esistenza in modo creativo e ho reagito. La verità è che, in quei momenti, si è costretti ad abituarsi all’idea della morte e questo permette di fare meglio i compiti in vita. È quello che si chiama il memento mori per vivere bene”.

Chi è oggi Laura Mazzeri?

“Uguale e diversa allo stesso tempo. Sono la Laura Mazzeri di sempre, anche se è cambiato per me il radicamento alla vita, perché ho compreso che, al di là dei malumori e dei problemi che tutti possiamo avere, è importante imparare a soffermarsi su ciò che realmente conta. Ho compreso la profondità dei rapporti con alcune persone che avevo intorno a me, ma ho anche capito quello che era necessario sfrondare. In sintesi, ho imparato a dividere l’accessorio dal fondamentale”.

Il Giovane Cavaliere. Che ruolo ha avuto nella tua storia?

Questo è l’aspetto più complesso delle storie di trapianto. Ogni persona vive in modo squisitamente individuale il rapporto col donatore in questo incrocio tra vite ma, pur nelle differenze, ci sono delle ricorrenze. Per esempio, quando aspettavo il trapianto, sapevo che lo aspettavo in virtù del fatto che qualcuno sarebbe morto e, accettare quest’idea, è stato per me duro e crudele. Da un lato prevaleva il senso egoistico della vita, il pensiero ‘voglio salvarmi’ e, dall’altro c’era la consapevolezza che qualcun altro sarebbe morto. Certo, non moriva a causa mia, eppure mi ritrovavo a sperare che morisse la persona giusta, quella che avrebbe avuto gli organi adatti a me. Stare in questa dinamica insegna molto. Che i nostri sentimenti non sono così netti, che dobbiamo imparare a vivere nelle ambivalenze e che far prevalere il sentimento etico è una scelta, che deve fare i conti con emozioni contraddittorie e contrastanti. Siamo madri e siamo ambivalenti, siamo mogli, compagne e siamo ambivalenti. Così è anche durante l’attesa del trapianto. Ma è stato anche il periodo in cui ho imparato a vivere il sentimento di gratitudine per qualcosa di gratuito. In senso più ampio si potrebbe pensare al sentimento di gratitudine per il dono della vita, che troppo spesso dimentichiamo, una vita per me governata da farmaci, cure, cautele, ma vita. Proprio in questo periodo mi capita, quando mi sveglio al mattino, di pensare per 5 minuti al mio Giovane Cavaliere e questo pensiero mi riempie di positività. Per un religioso potrebbe essere ringraziare Dio, per un laico ringraziare la Natura, ringraziare la Vita. Senza un atto di ringraziamento è molto difficile accettare la vita stessa e queste contraddizioni”.

 

 

 

 

 

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