C’è un momento, in teatro, in cui la finzione si frantuma e ciò che resta è la nuda verità dell’essere. Un attimo fragile, intenso, irripetibile. È in questo istante che Benedetto Casillo, grande artigiano della scena e figlio autentico della Napoli pensante e palpitante, incarna la vertigine dell’attore che ha attraversato il comico, sfiorato il grottesco e ora accarezza con mano ferma e occhi lucidi il drammatico, fino a beffeggiare la morte con un sorriso amaro, consapevole, eterno.
Sul palco dello storico Teatro San Ferdinando, tempio eduardiano per eccellenza, Casillo si presenta con “L’uomo dal fiore in bocca – Fiori di palco”, un’opera stratificata e colma di echi che non è solo spettacolo, ma un rito. Il testo, adattato da lui stesso, è un tributo all’essenza tragica e comica dell’esistenza, attraversando la parola filosofica e tagliente di Pirandello e fondendola con le voci viscerali di Raffaele Viviani, Totò e Enzo Moscato.
Quattro autori, quattro maschere dell’anima siciliana e napoletana, un solo interprete capace di contenerle tutte come un vaso antico in cui risuonano le voci di mille epoche. Casillo, diretto con precisione poetica da Pierpaolo Sepe, trasforma il celebre atto unico pirandelliano in un viaggio che sfida la logica del tempo.
L’uomo che attende la morte diventa metafora di ogni artista che, sapendo della sua fine, decide comunque di raccontare. Il fiore in bocca non è più solo simbolo del male, ma emblema della bellezza effimera, della parola che, come un petalo, sfiorisce appena viene pronunciata. In questo spazio sospeso, Casillo, con accento napoletano, lo stesso che fu di Viviani e della sua “Fravecature” e di Moscato con le sue creature, incarna non solo l’Uomo, ma anche l’Attore: colui che sa che tutto è illusione ma recita come se tutto fosse vero.
E proprio come Totò, maestro nell’arte di rendere tragico il riso e ridicolo il pianto, di cui rilegge la famosa “’A Livella”, Casillo gioca con la morte, la sbeffeggia, la inganna con l’arte. C’è in lui una maestria antica, fatta di tempo vissuto, di malinconie sapienti e di improvvise accensioni comiche, capaci di graffiare l’anima come un graffito su un muro sacro.
Accanto a lui, con misura e presenza, Sara Lupoli con la danza e Vincenzo Castellone disegnano figure evanescenti, anime inquiete e compagne d’un viaggio irreale, quasi allucinato. Il loro apporto, discreto e prezioso, accompagna il protagonista verso una soglia non ben definita, un altrove che sa di destino e di mistero, di teatro e di aldilà. La regia di Sepe, complice silenziosa, avvolge tutto con un velo onirico: non impone, ma suggerisce. Non costringe, ma libera. È uno spazio mentale, più che scenico, quello che viene offerto allo spettatore. Un altare su cui si compie il rito della parola.
Un altrove, per Casillo, in cui la memoria di ardenti interpretazioni del passato nel nome di Scarpetta, Beckett e Ruccello si annida fra le pieghe di ogni battuta, come una preghiera detta a mezza voce. Nei due atti di questo spettacolo, ogni gesto, ogni silenzio, ogni cambio di tono è una riflessione sull’essere umano, sulla sua finitezza e sulla sua ansia d’eterno. Benedetto Casillo, con la grazia di un vecchio saggio e la vitalità di un giullare, ci ricorda che l’arte è forse l’unico modo per non morire davvero.
E il teatro, come diceva proprio Eduardo, è il luogo dove “fingendo, si dice la verità”. Alla fine, resta un applauso lungo, sincero, commosso. Ma soprattutto resta dentro di noi, come un fiore nel cuore, il profumo di un’arte alta, profonda, umana. E un sorriso, lieve e nostalgico, con cui salutare la vita anche quando essa decide di voltarsi.